This is the story of a woman, in the southern Italy of the 50s. A story full of pain, true, but with an ending in which, as my nonna Pasqua said, “all falls back into place”.Questa è la mia storia seguita e passata con tante peripezie e dolori.
A sedici anni, incontrai un ragazzo che mi fece la corte e io gli dissi sì: era una infatuazione. Perché prima, se ti dovevi incontrare, si faceva di nascosto. Quella sera ci incontrammo vicino al cinema Coviello, che dietro stava una parte dove le persone si nascondevano un pò e ci sedemmo su una panchina e io sentivo che farfugliava con la parte genitale, ma per me era niente di più. Sentivo che parlava da solo. Poi ritornai a casa e vidi che sulla mia sottoveste c’era una macchia di sangue e mi spaventai e lo dissi a una mia amica. E lei: “che cosa ti ha fatto?”, io dissi “niente”. Le spiegai che lui stava giocando come se fosse una palla e io stavo mangiando il gelato che vicino c’era un bar. Questa amica lo disse ai miei genitori e successe il “patatrac”.
Andarono ai genitori del ragazzo a dire che il figlio mi doveva sposare e successe il finimondo, perché il figlio negava e diceva che non aveva fatto niente. Nessuno di quelli con cui parlavo mi dicevano come avvenivano i rapporti sessuali. Così mio padre querelò questo ragazzo dicendo che lui mi aveva disonorata. Tutto falso, il ragazzo diceva che era bugia, che lui non aveva fatto niente. Allora pure parlare era un disonore. Cercarno di portarmi alla casa della famiglia di lui per farmi sposare. Io mi fermai coi capelli lunghi alla fontana e dissi no. Non sapevo nemmeno che avevo fatto. Allora mio padre mi mi cacciò di casa poichè per lui io ero disonorata e io andai a casa di una mia zia che mi accettò. Fa niente diceva lui, che li ho visti dietro la stradina a parlare. E stetti una settimana digiuna, perché io non volevo mangiare il cibo di mia zia (per non sfruttarli). Tornai a casa e mio padre mi impose di non uscire fuori di casa, nemmeno sui balconi. Un giorno che uscii sul balcone, mio fratello lo disse a mio padre. Mio padre mi portò in uno sgabuzzino in cui andavamo per i nostri bisogni e mi bastonò.
E così passarono sei anni. Io ero distrutta e continuarono tutti i miei tormenti.Un giorno, giù a casa nostra c’era una sartoria e veniva a lavorare un giovane che si chiamava Michele. Lo sguardo di Cupido ci fece innamorare, perché non potevamo parlare, e lui mandò il maestro sarto a dire che lui mi voleva. Ma il maetro, guidato dalla moglie, non disse nulla e anzi gli dissero che io non lo volevo. Così lui partì per Napoli. Ma a Napoli lui era così triste che dopo un poco di mesi tornò, con il pensiero di tornare da me. Michele venne di nuovo dal sarto e disse alla moglie se poteva venire a dirmelo di nuovo, che voleva fidanzarsi ufficialmente, e venire a mio padre, a chiedere la mia mano: cioè fidanzandosi. E così fu.
Eravamo felici, il nostro amore era fatto di baci frettolosi e rubati quando loro non guardavano. Mio padre di continuo era manesco, e io soffrivo. Cosi un giorno, il mio Michele se ne accorse e chiese se facevo la fughina, se io non accettavo, non veniva più sopra a casa e cosi a poco a poco si distaccava, perché non frequentandoci più si avvicinava la fine. Così io accettai. Sì, perché lui per me era stato l’unico amore e accettai di segurilo.
Eravamo poveri perché le persone, essendo povere, quando mio marito lavorava non lo pagavano o i soldi li davano a poco a poco. E allora decidemmo che li dovevo rubare a mia madre e così, con l’aiuto di mia sorella più piccola di sette anni, riuscii: lei portò mia madre al dottore e nel frattempo io avrei dovuto prendere i soldi che mamma teneva nascosti sotto il materasso, ma per sfortuna mamma aveva portato i soldi insieme per pagare il negozio di generi alimentari. Pensate il mio dispiacere, perché io dovevo andare a raggiungere Michele vicino al pullman che portava a Barletta.
Allora cosa feci, mandai a mia sorella a chiedere i soldi in prestito dai vicini di casa, così mia madre quando tornava da fare la spesa glieli avrebbe portati. E cosè effettivamente successe. E così partimmo con pachi soldi e arrivammo a Barletta dove stavano i parenti di Michele che ci ospitarono e noi scrivemmo una lettera ai miei genitori per chiedere i soldi per tornare da loro. Così la sera, che partimmo per Napoli, per dormire dalla zia (la sorella della mamma di Michele) alle 10 di sera ci venne a svegliare e ci mandò via dalla casa, perché erano ritornati i figli a casa e lei non voleva togliere il posto ai suoi figli. Così, io piangendo e il mio Michele triste, ci avviammo alla stazione ferroviaria e ci sedemmo nel vagone del treno. Subito dopo una mezzora passò il bigliettaio che ci chiese il biglietto e io risposi che ci avevano rubato la valigia con i biglietti dentro. Il controllore capì che era una bugia e disse: “no signora, non possiamo fare niente, alla prossima fermata dovete scendere”. Al sentire quelle parole, cominciarono a uscirmi le lacrime, come dei cristalli e così scesi giù dal treno e il controllore, a vedermi piangere così, si impietosì e ci fece risalire sul treno dicendo a mio marito di mettersi nel corridoio che lo faceva nascondere quando passavano i controlli, e a me fece mettere in un vagone, che di la non passava il controllore. Così il conduttore ci fece scendere a Barletta. Io volevo risarcire il controllore, ma lui disse che non voleva nessun ringraziamento perche aveva visto che eravamo brave persone.
Così noi ritornavamo a Barletta, sempre dai famigliari di Michele che furono molto gentili. Pranzammo con loro e la sera ci accompagnarono a Bitonto e ci portarono a casa dei miei genitori. Ma mio padre non appena ci vide, ci cacciò, perché a noi non toccava stare da loro.
E così, tristi, ce ne andammo e ci recammo alla casa di Michele dove loro ci accettarono malgrado non avessero spazio. Ci adattammo.Della casa di mia suocera non ho scritto niente, perché erano molto poveri, eravamo nove persone in una stanza. Cominciarono altre peripezie. I figli, che erano 5, si stancarono.
Dopo 40 giorni in casa loro, ci sposammo.
Andammo a sposarci alle ore sei della mattina, nella sacrestia, non in chiesa, vestiti normali, senza parole di rito di quando qualcuno si sposa e senza benedizione. La sera ci fecero una piccola festa. Non sembrava esserci differenza fra gli sposi e gli invitati e io non avevo neanche un fiore bianco, per far notare la differenza. Poi abbiamo dato i dolcetti ai parenti e si ballava con la radio. E io fui felice, perché sembrava che le mie peripezie stavano per finire. Ma non fu così. Ma quello che successe, per me non fu niente, perché avevo il mio amore vicino, e dopo nove mesi arrivò una bellissima bambina. La chiamammo Grazia, e poi arrivarono altri quattro figli, con altre peripezie e cose belle della vita.
Ora ho 85 anni e sono qua senza il mio Michele e con i ricordi del mio passato che è difficile da dimenticare.
Sono stata contenta che per la mia nipote ho scritto tutto questo. Non ho scritto cose che mi hanno fatto soffrire di più, e ho messo una pietra sopra.
Nonna Pasqualina
Vi voglio tanto bene a tutti “9” nipoti, i figli e a nuore e generi. C’è tanto da dire! In anni vissuti insieme. Ora sono stanca, vi voglio bene, siete stati la mia vita.